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      Di 
        tanto in tanto la televisione italiana dedica la fiction a temi scottanti 
        o di attualità che raccolgono l’attenzione del grande pubblico. 
        La miniserie su Borsellino ha nobilmente sfondato quest’anno il 
        muro dell’alto consenso di solito raggiunto da programmi corrivi 
        o addirittura inquinati dalla volgarità e dal pettegolezzo, offerti 
        tra l’altro a voce alta come da chi, vergognandosi, vuole così 
        farsi coraggio. La televisione di stato ha scelto in queste settimane 
        due argomenti, l’uno di costume l’altro storico, in miniserie 
        che hanno subito richiamato l’interesse dei telespettatori nonostante 
        siano questi stati abituati a programmi scatenati solo all’inseguimento 
        degli ascolti. Due occasioni consolatrici. 
        La prima dedicata all’impegno di un tema che mette a confronto due 
        mentalità, quella di un padre legato alle abitudini e ai pregiudizi 
        del passato e quella di un figlio incline a una diversa concezione della 
        libertà individuale. La crisi di un padre che scopre un figlio 
        omosessuale provoca la drammatica ricerca della ricostituzione di un rapporto 
        per una reciproca comprensione o per un definitivo distacco. Qualunque 
        sia la conclusione, che appartiene alla creatività dell’autore, 
        si trattava in ogni modo di materia che richiedeva sensibilità 
        e sottigliezza non trascurando certamente le esigenze dello spettacolo 
        ma senza soggiacere ad esse. 
        Nella miniserie “Mio figlio” invece abbiamo assistito a una 
        incorreggibile indulgenza per il fumetto e per la melassa conclusiva, 
        con un “riscatto” suscitato agli occhi del padre da un coraggioso 
        colpo di pistola sparato dal figlio contro un rapinatore e conseguente 
        banda musicale della polizia, medaglia d’oro e codicillo da “vissero 
        felici e contenti”. Decisamente un’occasione consolatrice 
        ma mancata. 
        Una pari delusione ha provocato la recentissima miniserie “Il cuore 
        nel pozzo” che ha sullo sfondo il massacro delle foibe, troppo a 
        lungo ignorato e trascurato. A un tema così impegnativo non ha 
        corrisposto un pari svolgimento: il pubblico è quasi distolto dalla 
        tragedia collettiva, generata da antiche reciproche intolleranze, per 
        essere obbligato a dedicarsi al dramma personale, tra l’altro del 
        tutto inattendibile, di un padre alla ricerca del figlio sconosciuto. 
        Torna anche qui il fumetto e il melodramma, spiccano le facce feroci da 
        pupi a filo, le ripetitività insistite, persino una citazione da 
        “L’assedio dell’Alcazar” di lontana memoria con 
        fucileria e fuga e da una azione alla western. Non manca persino il solito 
        “vissero felici e contenti” con bacio catartico prima della 
        parola “Fine”. 
        Non sono riuscite a riscattare i due programmi le recitazioni spesso eccellenti 
        degli interpreti; per cui la causa di tutto ciò va addebitata alla 
        inadeguatezza e alla superficialità dei soggetti e delle sceneggiature 
        delle due miniserie in questione, inadeguatezza che è forse il 
        segreto della crisi dell’attuale cinema italiano. Dispiace perciò 
        che a scelte così opportune non segua il coraggio di trascurare 
        gli ingredienti che fanno udienza e di andare fino in fondo. 
        Sappiamo l’obiezione: ma le due miniserie hanno fatto alti ascolti! 
        È vero, i temi trattati erano di per sé attraenti; è 
        mancata la fiducia nel loro valore intrinseco se si è creduto di 
        infarcirlo con gli stereotipi correnti e ritenuti accattivanti. 
        Hanno fatto alti ascolti! È vero; ma questo dato non ci costringe 
        al silenzio. Anche Bonolis ha fatto altissimi ascolti con una lotteria 
        che ignorava ogni meritocrazia e indulgeva a istrionismi, volgarità, 
        doppi sensi e toccamenti propiziatori… 
        La televisione, soprattutto quella di stato, non deve essere schiava dell’ascolto, 
        ma determinarlo nella restituita consapevolezza che anche la qualità 
        paga e rende. 
          
      Turi 
        Vasile  
      da Il Giornale 
        8 febbraio 2005 
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