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      specialità di donna Maria Rocco Casa, la moglie di Luiz Inacio Lula, 
      presidente del Brasile, è la lasagna, come ha capito bene il compagno 
      Fidel Castro. Dopo una visita di Stato e una cena nella residenza presidenziale, 
      appena rientrato a L’Avana, Fidel ha alzato il telefono e ha chiesto 
      a donna Maria la ricetta di quella prelibatezza gustata a casa Lula. «È 
      un piatto che ho imparato da ragazza, non dimenticarti che mio nonno era 
      un emigrante che lavorava nelle piantagioni di caffè a San Paolo, 
      e quindi nelle mie vene scorre il sangue italiano...» ha scherzato 
      la first lady. E oggi anche lei, come trecentomila brasiliani, ha chiesto 
      la cittadinanza italiana. Una valanga di domande, gonfiate dai certificati 
      di nascita che dimostrano la parentela con un nonno, uno zio, un padre, 
      nati negli anni della grande emigrazione verso l’America latina. Montagne 
      di carte che hanno mandato in tilt gli uffici dei nostri consolati, dove 
      il tempo di attesa per chiudere una pratica e ottenere il doppio passaporto 
      sfiora i nove anni. Perchè tanta voglia di Italia? Le risposte sono 
      due. Innanzitutto ci sono le ragioni sentimentali in un paese che ha una 
      vera doppia identità, dove circa 25 milioni di brasiliani presentano 
      una traccia, un’origine, che riporta al Veneto, al Trentino, alla 
      Campania e alla Sicilia. Poi c’è un obiettivo pratico, concreto. 
      Diventare italiano significa, in questo momento, entrare nella comunità 
      internazionale dalla porta principale, l’Europa. Un’opportunità 
      per non sentirsi più cittadini di serie B, che quando viaggiano negli 
      Stati Uniti hanno bisogno del visto e sono guardati con la diffidenza dei 
      soliti, inaffidabili sudamericani. Nel giro di pochi decenni gli italiani 
      in Brasile sono diventati una fetta importante dell’establishment 
      nazionale. Molti di loro ancora ricordano le leggi razziali del dittatore 
      Getùlio Vargas che, dopo la seconda guerra mondiale, decise di vietare 
      l’uso dell’italiano. Ovunque. Vargas era un Mussolini alla rovescia: 
      il duce era entrato in guerra convinto che, dopo un conflitto-lampo, avrebbe 
      incassato il dividendo della vittoria; il dittatore brasiliano fece la stessa 
      cosa, solo che si schierò dalla parte giusta. E volle dare un segnale 
      agli alleati discriminando gli emigranti arrivati all’inizio del secolo 
      con la valigia di cartone e le scarpe bucate. Oggi, invece, gli italiani 
      sono di gran moda, e in tutte le più importanti città hanno 
      i loro luoghi simbolo. A San Paolo, il sindaco (che qui ha il titolo di 
      prefetto) José Serra ha piazzato uffici e residenza nel palazzo della 
      famiglia napoletana dei Matarazzo. Francesco Matarazzo è entrato 
      nella leggenda brasiliana, libri di storia e biografie lo celebrano come 
      «il più grande industriale del Paese», e sono iniziate 
      le riprese di un film che ripercorre la sua vita e già si annuncia 
      come il successo della prossima stagione cinematografica. Purtroppo, come 
      tutti gli imperi economici che devono affrontare i passaggi generazionali, 
      anche quello dei Matarazzo si è dissolto, sebbene si contano 400 
      eredi della dinastia napoletana. Tutti benestanti. Marta Suplicy, che guidava 
      il municipio di San Paolo prima di Serra, è sposata e separata proprio 
      con uno dei discendenti del conte Francesco e, sentendo quel cognome troppo 
      ingombrante, aveva deciso di cambiare nome al palazzo e intitolarlo ai «senza 
      terra» brasiliani. Poi il nuovo sindaco ha rimesso a posto le lancette 
      della storia e il palazzo del Comune ha ripreso la sua corretta identità. 
      A Curitiba, una cittadina di quasi due milioni di abitanti con un indice 
      di verde procapite pari al triplo di quello ritenuto ideale dalle Nazioni 
      Unite, sembra di stare in un centro urbano del Nord Europa. Strade ordinate 
      e pulite, boschi verdi trasformati in parchi pubblici, gente che attraversa 
      le strade in bicicletta, un meraviglioso museo di arte contemporanea, a 
      forma di occhio, disegnato dall’architetto Oscar Niemeyer. Il motivo 
      di tanta disciplina civica è collegato alla provenienza geografica 
      dell’emigrazione: a Curitiba sono arrivati i tedeschi, i polacchi 
      e i nostri trentini, portando qui stili di vita europei evoluti e disciplinati. 
      Compresa la santa più venerata del Brasile, Paulina Visenteiner, 
      una sorta di madre Teresa di Calcutta locale. Italianissima. Al contrario, 
      a Rio de Janero, la città dell’allegria carioca, gli italiani, 
      prevalentemente gente del Sud, si sono piazzati nei gironi della cucina 
      e del pallone. Nello Stato di Rio si contano ormai 2.500 ristoranti con 
      l’etichetta tricolore, e la squadra del Fluminense ha al centro del 
      suo gagliardetto la bandiera bianca, rossa e verde. Quando si riuniscono 
      nella sede del club, un intero palazzo liberty, i soci del Flumiense, che 
      gode della forza di un azionariato popolare di 50.000 tifosi, concludono 
      le assemblee tutti in piedi, cantando i due inni nazionali. Brasiliano e 
      italiano. Se sull’impero Matarazzo è tramontato il sole, altre 
      star italiane sono venute alla ribalta nell’industria brasiliana. 
      Come gli eredi di Luigi Papaiz, un bolognese che nagli anni Cinquanta impiantò 
      in Brasile una piccola officina meccanica: oggi gli stabilimenti di Diadema 
      e di Salvador de Bahia assicurano alla famiglia Papuiz il controllo del 
      mercato degli impianti di sicurezza meccanici venduti in Brasile. Una vera 
      fortuna. Un altro personaggio che ha fatto strada è Fernando Furlan, 
      veneto, amministratore delegato della Sadia, uno dei più importanti 
      gruppi alimentari dell’America latina, ministro dell’Industria 
      nel governo Lula. Spinte dal vento di un’economia che, a differenza 
      di quella europea, viaggia a un buon ritmo di crescita, e favoriti da incentivi 
      e leggi per lo sviluppo del territorio, stanno lentamente arrivando in Brasile 
      anche le nostre piccole imprese. A Uberlandia, nello Stato del Minas Gerais, 
      si sono insediate 15 aziende del mobile made in Italy, che intendono realizzare 
      un piccolo distretto locale. La baia di Rio dal prossimo mese sarà 
      attraversata dai catamarani fabbricati dalla italiana Rodriguez: otto minuti 
      il tempo previsto per la navigazione. Più difficile, invece, lo sfondamento 
      nel settore alimentare, dove scontiamo anni di distrazioni e l’assenza 
      di una politica commerciale. In ogni città del Brasile ci sono uffici 
      delle Camere di commercio e dell’Ice, ma il nostro olio d’oliva, 
      il migliore del mondo, non si riesce a vendere. Abbiamo appena il 4 per 
      cento del mercato brasiliano con i marchi del made in Italy, nulla rispetto 
      al 50 per cento degli spagnoli e al 35 per cento dei portoghesi. Quanto 
      alle grandi imprese, quelle italiane sono riuscite ad affermarsi nella zona 
      di frontiera tra la politica e gli affari, un’area che in Brasile 
      è affollata di mediatori veri e finti. La Fiat è leader del 
      mercato, con le sue auto ad alcol prodotte in ben 15 stabilimenti: se il 
      gruppo di Torino andasse ovunque come in Brasile, avrebbe risolto tutti 
      i suoi problemi. Anche la Pirelli è al vertice del mercato dei pneumatici 
      e nelle fabbriche brasiliane del gruppo lavorano 7.000 dipendenti. La Telecom 
      ha stretto i denti, ed è riuscita a sbarcare, con il marchio Tim, 
      nel ricco e promettente mercato dell’Umts: praticamente viene considerata 
      un’impresa nazionale e con 12 milioni di clienti è al secondo 
      posto nella classifica degli operatori locali per volume di traffico. L’Eni 
      soffre il monopolio della Petrobras, l’azienda petrolifera di Stato, 
      ma è riuscita a infilarsi nel pool delle società straniere 
      che partecipano alle ricerche di nuovi giacimenti di petrolio. Sul fronte 
      della finanza, Generali ha il controllo di un’importante compagnia 
      di assicurazione, mentre con troppa disinvoluta abbiamo abbandonato il campo 
      bancario lasciando terreno libero ai grandi istituti di credito spagnoli. 
      E adesso, rientrare nel giro delle banche brasiliane è diventato 
      impossibile. I grandi gruppi dell’industria e della finanza hanno 
      una sponda importante nel club degli italiani al vertice della politica 
      brasiliana. Si tratta di cinque ministri, tre governatori, 58 parlamentari 
      e il 25 per cento dei sindaci di tutto il Paese. Un vero partito di maggioranza. 
      Tra i governatori di origine italiana, il più popolare è Germano 
      Rigotto, presidente dello Stato Rio Grande do Sul. Rigotto è un mini-Berlusconi, 
      dotato di un particolare feeling con i suoi elettori. Vederlo entarre allo 
      stadio di Porto Alegre, durante la partitissima Brasile-Paraguay, è 
      stato uno spettacolo: strette di mano, abbracci, baci. Per tutti. Come nei 
      comizi, quando Rigotto non dimentica mai di abbracciare, uno per uno, i 
      suoi sostenitori politici. E il governatore dello Stato Rio Grande do Sul 
      potrebbe essere la grande sorpresa nelle prossime elezioni presidenziali 
      previste per il 2006. L’italiano Rigotto è entrato, infatti, 
      nella ristrettissima rosa dei candidati al ruolo di sfidante di Lula, anche 
      grazie allo scontro in famiglia tra il sindaco di San Paolo, Serra, che 
      ha già perso nel 2002 la sfida con Lula, e il governatore dello Stato 
      di San Paolo, Gerarldo Alckmin. Il presidente del Brasile è ancora 
      in testa nei sondaggi e il fatto che l’opposzione non abbia scelto 
      un leader lo avvantaggia di fronte agli elettori. Ma la stella di Lula perde 
      brillantezza ogni giorno, sotto i colpi di due polemiche devastanti per 
      la sua credibilità. La prima è alimentata dall’ala sinistra 
      del partito dei lavoratori, che continua a presentare a Lula il conto delle 
      sue promesse elettorali a favore della parte più debole della popolazione, 
      e non accetta la politica neoliberista del governo. Il secondo punto, sul 
      quale Lula potrebbe definitivamente scivolare, è quello della questione 
      morale, che comprende una serie di scandali con al centro, sempre, l’entourage 
      più ristretto del presidente. L’ultima scoperta riguarda il 
      tesoriere del partito dei lavoratori che avrebbe pagato compensi in nero 
      a parlamentari della maggioranza e dell’opposizione in cambio dei 
      loro voti a favore del governo. E nelle maglie di questa incertezza potrebbe 
      infilarsi, con la sua popolarità, l’italiano Rigotto. Intanto 
      un primato, grazie al voto popolare, gli italiani in Brasile lo hanno già 
      conquistato con il volto acqua e sapone di Carina Beduschi, appena eletta 
      miss Brasile 2005. Carina è di origini mantovane, e anche lei ha 
      chiesto, come donna Maria Rocco Casa in Lula, la cittadinanza italiana. 
      Forse, considerando il suo status di diva nazionale, potrebbe ottenerla 
      prima del prossimo decennio.  |