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 Sarà perché la fiction su De Gasperi volevo produrla io con la mia società e con la regia di Carlo Lizzani, ma devo coraggiosamente affermare che il “De Gasperi” messo in onda da Raiuno il 25 e il 26 aprile non mi è piaciuto affatto! E dire che ho tentato con tutte 
        le mie forze di sottrarmi al condizionamento del mio stato d’animo 
        mortificato per aver perduto una occasione importantissima nella mia lunga 
        carriera di uomo di cinema per essere stato escluso da un progetto pertinente 
        alla mia generazione.  La mia scelta del regista Carlo 
        Lizzani era motivata dalla sua collaudata capacità di portare sullo 
        schermo personaggi ancora vivi nella memoria visiva e storica, senza inseguirne 
        le somiglianze fisiche ma restituendo con sapienza un ritratto interiore 
        più convincente di un fedele simulacro.  Avendo una tale riserva sulla 
        coscienza, intimidito dall’eccezionale assordante onnipresente promozione 
        dell’evento e dagli sperticati elogi, avrei dovuto adeguarmi o tacere. All’inizio si propone come una favola raccontata dal nonno al nipotino, logoro espediente per introdurre un lungo flash back; ma le immagini che seguono non hanno il tono promesso dall’incipit, diventano un racconto fatto a un adulto, non all’innocente bambino, interrotto a tratti da una voce interiore del protagonista. Gli avvenimenti sono allineati come capitoletti di un libro scolastico, passano dall’uno all’altro affastellati, senza neppure realizzare un armonico ritmo narrativo. L’intento biografico della fiction non ha consentito invenzioni, trovate originali per enucleare dalla cronaca della vita di un grande statista quegli episodi rivelatori di una personalità, in fondo enigmatica e algida in apparenza come quella di De Gasperi, invece problematica interiormente e persino assai sofferente. Drammaturgicamente il De Gasperi 
        che abbiamo visto è monocorde, piatto e senza risvolti: le sue 
        impennate, i suoi scatti sono del tutto esteriori; la sua aria rassegnata 
        di vittima predestinata lo accompagna dall’inizio alla fine; le 
        sue effusioni sentimentali con la moglie e in famiglia sono edulcorate 
        ed edificanti piuttosto che convincenti. Più sciolta mi è 
        sembrata Sonia Bergamasco, sua moglie nella vita e nella fiction. Per 
        la verità la recitazione più naturale era quello del bambino; 
        in altri si notava una affettazione quasi di tipo amatoriale.  I personaggi di contorno, ma 
        assai noti, come Don Sturzo, Togliatti, Scelba, Nenni erano al limite 
        della caricatura. Chi li ha conosciuti di persona inevitabilmente faceva 
        confronti assai riduttivi. Nenni che abbandonava le riunioni come un ragazzo 
        capriccioso, inseguito da De Gasperi, sarà pure accaduto, ma non 
        è l’aneddotica a restituirci la verità dei rapporti. 
        Togliatti, il dottor Sottile, è qui un politicante rissoso e rozzo, 
        inattendibile del tutto. Sospendo ogni giudizio sospettoso 
        come sono di essere parziale, proprio perché c’ero anch’io. 
        So bene che i meno consapevoli del senso profondo degli avvenimenti sono 
        spesso i contemporanei.  Il cinema è una fabbrica 
        dell’immaginario e ammette gli inserti di materiale di repertorio 
        opportunamente scelto e montato per rievocare un’atmosfera trasfiguratrice 
        al pari delle ricostruzioni. Di questi inserti, del resto, si è 
        fatto uso nella fiction in esame; con una maggiore fantasia se ne poteva 
        trarre più suggestivi effetti. Il giovane Andreotti fu il 
        tramite ideale tra il patrimonio della memoria democratica custodita nel 
        rifugio di una biblioteca e le esigenze nate all’esterno da nuove 
        urgenze. Ancora una volta il pur volenteroso 
        Gifuni (a proposito, sulla base di quale criterio è stato scelto?) 
        è stato costretto a una immobilità del personaggio laddove 
        si doveva rappresentare una crisi dinamica nella quale un personaggio 
        di deuteragonista come Andreotti avrebbe assolto le regole immutabili 
        della grande drammaturgia.  Pur temendo di essere tendenzioso 
        e intollerante, reagisco vivacemente alle scene prefinali, dove è 
        presentato un Padre Lombardi scomposto e minaccioso e viene enfatizzata 
        la divergenza di idee tra De Gasperi e Gedda, di cui sono stato fedele 
        e costante collaboratore.  Concludo con una esperienza 
        personale che ha inciso assai profondamente sulla mia valutazione dell’uomo 
        De Gasperi, devo ad essa un flash della memoria, indelebile. Ho incontrato 
        De Gasperi da vicino solo una volta, nella sua casa di via della Stazione 
        San Pietro, nel 1946.  Quel giorno, euforici, ci eravamo 
        riuniti in prossimità del Viminale e ricordo che Emilio Colombo, 
        allora segretario generale dell’Azione Cattolica, vi tenne il suo 
        primo comizio pubblico. Subii subito il fascino di 
        un carisma misterioso, profondo, sigillato in una maschera impassibile 
        e trasmesso con un linguaggio scarno ma illuminante.  Da quel giorno non le ho più 
        dimenticate; sebbene le abbia poi risentite, ma non sempre applicate, 
        mai comunque con la stessa incisiva sincerità. Turi Vasile  | 
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| 28 aprile 2005 |