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              Il 19 settembre di vent’anni fa la notizia della morte di 
              Calvino mi colpì al punto tale da costringermi al viaggio 
              notturno verso Siena. Arrivai all’alba e dovetti aspettare 
              per poter entrare nella camera ardente. Quando lo vidi, avvolto 
              in un sudario bianco, mi sembrò ancora giovane. Si capiva 
              che la morte l’aveva colto di sorpresa, mentre era intento 
              al suo lavoro multiplo e poliedrico, con i tanti tavoli ad aspettare 
              che lui accumulasse fogli e immagini. Dire oggi Calvino significa 
              nominare la letteratura. C’è forse un’esagerazione 
              in quest’accostamento, ma sta di fatto che nessuno come lui 
              si è tenuto fedele all’idea e alla pratica che la letteratura 
              può dire ciò che nessun altro strumento espressivo 
              può dire. Calvino ha lavorato molto, su più piani 
              e su svariati versanti. Ha lavorato per sé e ha lavorato 
              perché nascesse e si stabilizzasse una cultura italiana all’altezza 
              della crescente complessità del mondo. Oggi si abbeverano 
              ai suoi libri non solo i letterati, ma anche gli scienziati, i sociologi, 
              gli architetti e i saggisti in generale. A differenza di molti altri 
              scrittori, anche più forti espressivamente di lui, il suo 
              nome fa capolino nei libri più disparati. Calvino ha dunque 
              posto il problema della conoscenza attraverso gli strumenti della 
              letteratura. Morto lui, i suoi semi hanno fruttificato non solo 
              nella nostra lingua, varcando i confini della letteratura italiana 
              e innestandosi nell’elaborazione di altre letterature. È 
              dunque un’esagerazione dire: Calvino, ovvero della letteratura, 
              ma si tratta di un’esagerazione ben fondata. A vent’anni 
              dalla sua morte è giunto il tempo di una visione laica del 
              suo lavoro, facendo piazza pulita sia dei calviniani sfegatati sia 
              degli anticalviniani viscerali. In entrambi i casi si perde il piacere 
              conoscitivo di cogliere i tanti passaggi di uno scrittore eminentemente 
              metamorfico, con le sue riuscite e le sue cadute. Uno scrittore 
              che ha intrecciato la sua storia personale a quella dell’Italia 
              e che ha saputo fare esistere un coerente mondo di immagini mentali. 
              Da Pin a Palomar c’è un arco di tentativi, di disciplina 
              espressiva, di limpidezza linguistica e di pensiero che rendono 
              evidente la serietà del suo lavoro. Era poco più di 
              un ragazzo quando salì sulle montagne liguri per fare la 
              Resistenza. Da quel momento ci fu il credere prima nella Storia 
              e il successivo smagarsi da essa, l’allargare la sua visione 
              al cosmo senza mai abbandonare i problemi degli individui. Senza 
              dimenticare la combinatorietà, i suoi libri meno riusciti 
              come Il castello dei destini incrociati e Se una notte d'inverno 
              un viaggiatore; libri affetti dal virus della virtualità. 
              E come dimenticare il saggista, lo scrittore di lettere e il lavoro 
              editoriale. Tutti questi aspetti sono accomunati dalla sua prosa, 
              una delle più belle, nitide ed esatte del secondo Novecento. 
              Una prosa conquistata con pazienza, non certo un dono naturale, 
              una magistrale linea dritta che nasconde le scosse delle curve, 
              il possibile perdersi della penna nel vuoto, lo sgocciolare della 
              stilografica invano. L’ho incontrato un’unica volta, 
              a Palermo, nel 1984, un anno prima che morisse. Lo festeggiavano 
              per Palomar. Ricordo l’accento ligure della sua voce, un leggero 
              balbettìo e il fascino straordinario della sua intelligenza 
              epressiva. Allora Palomar mi aveva folgorato, costringendomi a studiarlo 
              in ogni suo dettaglio e spingendomi verso la filologia e la variantistica. 
              Le sue «operette morali», ricordo che definì 
              il suo libro in quell’occasione. Oggi il Calvino di La speculazione 
              edilizia e di La nuvola di smog è il mio preferito, ma dovrei 
              rileggere daccapo i suoi libri. Vent’anni sono quasi la metà 
              della mia vita, potrei dire che nei primi dieci mi sono occupato 
              di lui con strenuo accanimento e negli altri dieci ho provato a 
              dimenticarlo. Nell’oscillazione tra questa memoria e quest’oblìo 
              c’è forse l’immagine di quello che io sono oggi. 
             
            17 settembre 
              2005  |