Allora 
            perché siamo qui?” 
            “Per odio, solo per odio. Non so da dove viene, ma trabocchiamo 
            tutti d’odio.” 
            Sequestrati vicino Tagaste da un 
              gruppo di guerriglieri algerini Eustachio Petrocelli e l’amico 
              tunisino Majid El Houssi dividono la stessa cella. 
              Nel buio della prigione Eustà racconta della sua terra, Metaponto, 
              della varia umanità di amici, donne, santi e farabutti: un 
              bestiario vivido ed esilarante che gli ruota attorno. Vince su tutti 
              la sua famiglia, perennemente in subbuglio e agitata dal bigottismo 
              di mamma Cettina che riempie la casa di Madonne e snocciola rosari; 
              dalle stravaganze di zia Sinforosa che si lava solo nello Jonio 
              per paura di annegare nella vasca da bagno; dalle imprecazioni di 
              nonno Fedele che dalla sua sedia a rotelle inveisce contro il mondo, 
              mentre ricorda nostalgicamente il Ventennio fascista. 
              Quella di Eustachio è una vita movimentata, soprattutto per 
              il suo olfatto prodigioso capace di individuare odori impalpabili 
              e finissimi. È addirittura ossessionato dalle esalazioni 
              del sangue e dei cadaveri dimenticati sotto cumuli di terra, quelli 
              antichi del mondo magnogreco, quelli recenti della delinquenza organizzata. 
              Con l’amico Renato, detto Che Guevara, decide di sfruttare 
              la sua strana dote mettendosi alla ricerca di antiche necropoli 
              da saccheggiare. Ma non sono i soli a essere impegnati in questa 
              attività. Presto si troveranno coinvolti in una guerra fra 
              bande subdola e spietata. Al grido “Cantami o diva del peloso 
              Achille” il ruvido Masciopinto guida un’immaginaria 
              fazione dei greci contro Eustà che diventa Ettore e i loro 
              scontri danno vita a una privatissima Iliade che occupa le terre 
              tra Taranto e Cosenza, un grande affresco sul tema dell’identità 
              e della memoria nella tempesta delle stagioni di passaggio. 
              Nel buio della prigione algerina si confrontano senza indulgenza 
              l’anima cristiana e quella islamica di un Mediterraneo che 
              è “un accumulo di culture, come un muro tappezzato 
              di manifesti, sovrapposti e scrostati”. 
              Con Malavarosa Nigro si conferma scrittore sagace, abile nel tracciare 
              un ritratto impietoso e ironico di un Meridione che va mutando nonostante 
              il malaffare e la disoccupazione e che vive una difficile stagione 
              di crescita dalle memorie contadine di Carlo Levi a una esaltatnte 
              fuga verso la modernità. Un Sud che si arrabatta, ma non 
              molla la presa e sa mantenere nonostante tutto la sua autentica 
              umanità. 
            
            
            Raffaele Nigro 
              (Melfi, 1947) vive e lavora a Bari, dove è caporedattore 
              della sede Rai. È autore di: I fuochi del Basento (1987, 
              Premio Supercampiello), Ombre sull’Ofanto (1992, Premio Grinzane 
              Cavour), Dio di Levante (1994), Diario Mediterraneo (2000, Premio 
              Cesare Pavese) e Viaggio a Salamanca (2002). Per Rizzoli ha pubblicato 
              la raccolta di racconti Il piantatore di Lune (1991). I suoi libri 
              sono tradotti in molte lingue  
             
            
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