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       A ottantasette anni, 
      finalmente tranquillo, Dino Risi si è seduto davanti alla sua vecchia 
      Lettera 32 per ripercorrere avanti e indietro, intrecciandone i mille 
      fili, la sua vita allegramente dissipata e profondamente scorretta. 
      Nei Miei mostri Risi ha montato le scene della sua esistenza nella più 
      divertente commedia all'italiana che ci sia stata raccontata da molto 
      tempo. Una commedia lunga un secolo che, ambientata su vari set, spazia 
      dalla Milano in guerra alla Roma negli anni Cinquanta e Sessanta e si 
      allarga via via al mondo intero. 
      In scena una carrellata di personaggi che va da Fellini e Strehler fino ad 
      Ava Gardner e Anita Ekberg, passando per Gassman, Sordi e Tognazzi. 
      Un libro divertente e commovente dove convivono la guerra e la follia, 
      Mussolini e le case chiuse, le donne e gli amori, gli amici e la morte, le 
      idiosincrasie e, di striscio, pure il cinema. E del quale, come di un suo 
      film, si apprezzano e si godono le belle immagini, la sceneggiatura 
      brillante e il montaggio magistrale.  | 
  
  
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    Estratto da 
    “I miei mostri” di Dino Risi 
     
    «VOI ITALIANI NON SA FARE AMORE»  
    Anita (Ekberg) era bionda, svedese, amava la 
    vita. Viveva per il piacere. Un giorno, era a letto con un regista italiano
    (Risi), quando chiamò il suo grande amore, un industriale 
    di Torino (Agnelli). Telefonava da Tokyo. Ma lei aveva 
    appena letto su un settimanale di pettegolezzi che lui aveva avuto una 
    storia con una attricetta francese. Lo insultò, gli disse: «Tu non ama 
    me, tu maiale italiano, io non ti ama più», e mise giù.  
    Piangeva. Poi scosse via da sé l’uomo col quale stava facendo l’amore. «Tu 
    stronzo. Voi italiani tutti uguali. Voi non sa fare amore. Vai via!»
     
    Il regista si rivestì, andò via. Non si videro più.  
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    Anita Ekberg e Gianni Agnelli (Oggi)  | 
  
  
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       LA TELEFONATA 
      DI AVA GARDNER  
      Luciano V.(Vincenzoni), bell’uomo sui quaranta, sceneggiatore 
      cinematografico, tombeur de femmes, ebbe un incontro ravvicinato con 
      Ava Gardner, che allora abitava a Roma. Era estate, la invitò a 
      Capri per un week-end. Luciano parlava bene l’inglese, era brillante, ne 
      aveva di cose da raccontare, e le raccontava bene: come quando una sera, 
      in trattoria con De Laurentiis, gli raccontò una novella di Maupassant, e 
      il produttore gli staccò subito un assegno.  
       
      A Capri Ava e Luciano scesero all’Hotel Quisisana (e dove se no?). 
      Appena entrati nella suite, un mazzo di rose attendeva la bella americana. 
      Che si attaccò subito al telefono e chiamò Frank Sinatra a Los Angeles. 
      Passò così una mezz’ora. Intanto era arrivato un cameriere con due whisky.
      Ava sorseggiava il suo e parlava. Luciano bevve il suo.  
      Quando la telefonata si 
      fece più intima Luciano, per discrezione, pensò bene di allontanarsi. 
      Uscì, comprò dei giornali, andò in piazzetta, bevve un caffè seduto, lemme 
      lemme tornò in albergo. Ava era ancora al telefono. Luciano non 
      nuotava nell’oro. Quella telefonata cominciava a preoccuparlo. La 
      Gardner stava raccontando a Sinatra il soggetto del film storico che 
      stava girando a Roma.  
       
      A un tratto cadde la linea. Ava si alzò per andare in bagno, disse: 
      «Luciano, caro, mi ordineresti un gin-tonic? E per favore di’ 
      all’operatore se mi richiama Frank. Non vorrei che pensasse che gli ho 
      buttato giù il telefono». Dal bagno si fece risentire la voce di Ava: 
      «Luciano, caro, tu hai il numero di Walter Chiari?». In quella suonò il 
      telefono. Era Sinatra. L’operatore aveva ristabilito il contatto. La 
      conversazione aveva preso un tono drammatico: «Adesso me lo dici? Ma non è 
      possibile! L’ho visto due settimane fa, stava benissimo…». Luciano guardò 
      l’ora.  
       
      Da quando erano entrati in albergo era passata un’ora e un quarto, un’ora 
      e venti. Ava Gardner diceva: «Ma certo che la chiamo. Sta a 
      New York? Hai il numero?». Fece un cenno a Luciano, che le desse qualcosa 
      per scrivere. Luciano le passò la sua Parker d’oro. Poi andò in 
      anticamera, dove aveva lasciato la sua ventiquattrore con dentro una 
      camicia, il nécessaire e un costume da bagno. Raccolse la valigia, aprì la 
      porta senza fare rumore. Dieci minuti dopo era al porto in attesa del 
      primo vaporetto per Napoli.  
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      Ava Gardner  |